Erik Sablé
3ème Millénaire n. 84 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini
Psicologia e spiritualità sono come due metà di una tazza.
Sono tutt’e due necessarie al buono sviluppo dell’albero spirituale, l’una
completando l’altra, l’una essendo indispensabile alla crescita dell’altra.
Perché questo?
Gli antichi hanno sempre saputo che lo sviluppo del fuoco
interiore poteva portare ogni sorta di disordini nella psiche del discepolo,
facendo risorgere i nodi nascosti dell’anima.
L’uomo ordinario è “grigio”, le sue pulsioni si equilibrano,
si integrano, senza stravolgere l’ordine quotidiano,
le sue piccole follie stanno in un quadro ragionevole. Ma,
mettendosi in una via spirituale, posando i piedi su un sentiero
dell’interiorità, tutto ciò che era nascosto, si manifesta apertamente, si
svela.
E quelli che non hanno coltivato parallelamente al lavoro
spirituale un approccio psicologico, una ricerca sulla loro psiche, sul suo
funzionamento, saranno sommersi da pulsioni di aggressività,
da deliri paranoici più o meno gravi.
Ogni sorta di mali che si ritrovano nei
fondatori di sette, gli pseudo-guru dalle reazioni infantili o nei falsi
profeti esaltati che s’immaginano che l’universo graviti attorno a loro. Evidentemente tutte queste devianze saranno giustificate
in un modo o nell’altro. La mente è astuta e sa trarre a suo vantaggio gli
avvenimenti. Anche i crimini peggiori trovano sempre le loro giustificazioni,
soprattutto in questo ambito.
Nella nostra epoca, l’aspetto psicologico del cammino
spirituale passa attraverso uno studio dei “meccanismi del me”, le sue
strategie, i suoi funzionamenti, le sue reazioni, come insegna Arnaud Dejardin nei suoi libri
e nelle sue conferenze.
Prima, questo passava per una “purificazione morale”, che si
ritrova nella teologia ascetica cristiana e nella
disciplina dello yoga, con le
prescrizioni (yama e niyama) che
precedono e accompagnano la pratica. Abbiamo, per esempio, la cultura della
non- violenza (ahimsa), ma anche una
conoscenza molto fine delle pieghe della psiche all’origine delle sofferenze e
delle illusioni nelle quali ci dibattiamo.
L’estrema importanza dell’umiltà nel cristianesimo ha la
stessa funzione catartica, poichè il senso vero, profondo e primario
dell’umiltà (da humus: terra), non è di abbassarci ad una specie di
masochismo malato, ma di aprirci a ciò che siamo, di
confrontarci alla realtà del nostro essere.
Come dice Pierre Damascene: “Non
c’è niente di meglio che riconoscere la propria ignoranza”. Isaac il Siriano,
che ebbe una grande importanza per la tradizione ortodossa, riprende lo stesso
tema e afferma: “Felice l’uomo che riconosce la propria debolezza”.
Per questi autori, l’umiltà è la piena coscienza di ciò che siamo al di là delle apparenze.
Solo l’umiltà ci guarisce da tutta l’esaltazione orgogliosa
che potrebbe nascere dal nostro stato spirituale, da ciò che prendiamo per
illuminazione. E la sua funzione è esattamente quella
della pratica psicologica che ci mette di fronte alle nostre oscurità, a quegli
aspetti di noi stessi che vogliamo ignorare, che rifiutiamo.
Perché, noi sogniamo quel che siamo, e la via spirituale purtroppo
non guarisce la tendenza all’illusione.
Il buddismo codificò e articolò la necessità di questo
doppio approccio della realtà spirituale, ed è senza
dubbio uno degli aspetti più geniali della dottrina del Signor Gautama.
Il buddismo distingue due specie di pratica. Da una parte quelle che riguardano la via della concentrazione, che
si chiama samatha in sanscrito e chi né in tibetano. Esse
portano ad uno stato di quiete e agli stati spirituali
rupa e arupa jhana, ma non al nirvana, alla liberazione.
Dall’altra parte, ci sono quelle che riguardano
l’investigare (le vie psicologiche), che si chiama vipassana in
sanscrito e llag tong (la via profonda) in tibetano. Esse permettono di
investigare la natura del me e di realizzare il suo carattere illusorio.
Il buddismo ritiene che le due
vie siano necessarie e si debbano praticare insieme. Come insegna Tsonkapa nel
suo "Ode alle realizzazioni": “La concentrazione
non ha il potere da sola a tagliare la radice del samsara. La saggezza non
associata alla calma mentale moltiplica invano le analisi… Così facciamo
inforcare alla
saggezza, che percepisce la vacuità, il cavallo dell’indicibile calma mentale”.
Con la pratica della meditazione, il discepolo può realizzare una quantità di
stati spirituali, che possono durare qualche secondo,
qualche giorno o la vita intera. Ma questi stati, per
quanto possano essere luminosi, restano condizionati e non sono la liberazione.
Quelli che vivono quegli stati di quiete senza una
comprensione in profondità dei meccanismi del “me”, possono prendere la
beatitudine del vuoto per l’Ultima Realtà. E il discepolo che cade in questo inganno diventa simile a quel monaco, di cui parla la
tradizione tchan, che strofina un bricco pensando di farne uno specchio.
Perciò, se la pratica dell’investigare è condotta senza la
meditazione, l’esperienza della liberazione che sopraggiunge non
può radicarsi ed è fugace. Cioè, la psicologia sola
senza la pratica della spiritualità, porta ad un’altra forma di errore. E noi vediamo bene che le psicoterapie non possono cambiare
un essere in profondità. Esse portano un senso di liberazione superficiale e
passeggera. Danno una lucidità, una comprensione dei nostri funzionamenti che è
preziosa, ma insufficiente. Non fanno che aggiustare
il “me”, dargli una migliore armonia. Ma non toccano la sua origine e
l’angoscia profonda che si trova alla radice dell’esistenza rimane inalterata,
perché essa non è di origine psicologica, ma
spirituale.
Ora, nella via buddista, si possono condurre in parallelo i
due approcci, coltivando dapprima la quiete con l’attenzione al respiro, lo
sviluppo di una pace interiore, di presenza a sé e, a partire di lì, portare
l’indagine sul nostro funzionamento.
Come abbiamo visto, nella sua essenza,
questa via consiste nel comprendere il me e nel realizzare il suo
carattere illusorio.
Si tratta dapprima di ripetere
l’io che si perpetua sul filo del pensiero. Appare solo
quando c’è una certa distanza tra la parte di noi stessi che si lascia
trasportare dai pensieri erranti e la parte immobile, il luogo di pura
coscienza. Allora, se siamo abbastanza attenti, l’io si svela
a poco a poco e, più cresce l’attenzione, più diventa percepibile. A
partire da lì ci occorre dapprima comprendere che c’è un legame tra il pensiero
e il “senso del me”, l’io. Se tentiamo di isolarlo dal
pensiero, non può mantenersi. Fugge costantemente, scappa, oppure scompare e si
riassorbe nel seno della pura coscienza. Dunque non è distinto dalla forma ed è
per questo che i buddisti
dicono che il me è illusorio. Vogliono dire che non ha esistenza autonoma,
propria, fuori dal flusso dei pensieri erranti.
Ora, se la nostra attenzione cresce, ci accorgiamo che un pensiero
è sempre preceduto da una “tendenza”, un movimento verso, una volontà di
prendere, o, al contrario, un’ansia, una inquietudine,
un riflesso di paura. Poi il pensiero propriamente detto, appare. Sorge nello
spirito. Ma è già preso da una dinamica, una volontà
di afferrare qualcosa, o una contrazione, un’inquietudine.
L’io, la coscienza,
si trova immediatamente identificato a quello. Ma ciò che ha portato quella
identificazione, quell’attaccamento al pensiero, è la dinamica o la paura che
l’avvolge, la precede e la porta. Ora, come diceva il sesto patriarca del tchan,
Hui Neng, è
proprio quell’attaccamento che è la sorgente dell’illusione e non il pensiero
stesso.
Nel buddismo, l’origine dell’incatenamento al pensiero, che
è un attaccamento al divenire, è la forza intenzionale, la volontà tesa verso
uno scopo. Il verbo samkr (all’origine della
parola samskara), indica un’attività che modella, coordina in vista di un fine.
E sono precisamente quei samskara che sono la sorgente dell’illusione,
della maya che ci imprigiona nelle sue trame e
che fa girare senza fine la ruota delle nascite e delle morti.
Bisogna perciò comprendere ciò
che vuole il pensiero. Qual è la sua intenzione? Qual è l’oggetto di quella dinamica che la conduce? Noi crediamo che desideri qualcosa
di preciso, come la soluzione di un problema, un progetto di vacanze, o che sia il riflesso di una preoccupazione, il ruminare una
parola offensiva o la giustificazione di una delle nostre azioni. Ma, stando abbastanza attenti, scopriamo che quelli non sono
che pretesti.
In effetti il pensiero vuole solamente esistere, perpetuarsi o più
esattamente perpetuare il me. Perché, come abbiamo visto, il me che non esiste
fuori dal mentale, vuole sentirsi esistere e non può farlo che attraverso il
movimento del pensiero, passando continuamente dall’uno all’altro. Se no ha l’impressione di scomparire e questo gli è
insopportabile.
I pensieri erranti non tendono che a perpetuare l’io ed è
comprendendo pienamente questo che potremo liberarci
dalla presa del mentale e vivere la Pace Profonda, lo stato di perfetta quiete.
Il me cadrà come una scorza esterna che non ci serve
più, per rivelare lo stato di unità con l’universo, che cancella l’angoscia, la
sofferenza inerente all’illusione. Si produrrà una specie di scioglimento
interiore, un rivoltamento (come un guanto si
rivolta), e ci ritroveremo in un mondo fatto di coscienza, senza né dentro né
fuori.